Tanti e tanti anni fa, sull’agorà della libera Atene, i sofisti dimostravano ai loro sbalorditi uditori che l’uso intelligente della dialettica può capovolgere l’immagine del mondo, e che niente è così certo e sicuro da sopravvivere indenne al confronto di opinioni. Sul confronto di opinioni è stata costruita la nostra civiltà: scienza, filosofia, letteratura e teatro e, con l’avvento di radio e televisione, anche dibattito e tavola rotonda, fino agli sviluppi ultimi dei commenti in chat o sui blog. Confrontarsi era l’alternativa sempre auspicabile allo scontrarsi, “parliamone” significava “cerchiamo una soluzione che eviti anche in extremis l’urto traumatico, la frattura”.
Questo modo pacato, “urbano” di affrontare le controversie sta ormai tramontando inesorabilmente: assistiamo, ogni giorno più spesso, all’affermazione, anzi all’esaltazione della “cultura dello scontro”. E’ fin troppo facile attribuire la punta dell’iceberg, cioè gli aspetti più smaccatamente negativi di questa impostazione interiore, ai soli giovani: ragazzi maleducati, ragazzi violenti, ragazzi ingestibili, pronti a distruggere con poche battute sincopate e sgrammaticate su Facebook rapporti interpersonali che sembravano intoccabili, così come a prendere a sassate le vetrine o a calci i loro simili. Ma i giovani sono il prodotto logico della nostra educazione; abbiamo consapevolmente rimosso dalla scuola dell’obbligo tutto quello che contribuiva alla formazione di una coscienza critica, via la lettura, via la discussione, via la riflessione personale, via l’elaborazione mnemonica e l’interiorizzazione che ne conseguiva, fino all’appiattimento mentale delle verifiche all’americana, vero o falso da sbarrare, esteso alle discipline umanistiche che più avrebbero dovuto insegnare a pensare. In cambio, disco verde alla video informazione, al videogame, al click che chiama in gioco e potenzia il riflesso immediato, sì o no, esco o continuo. Abbiamo educato a non riflettere.
E poi, ammettiamolo senza ipocrisie, tutti noi amiamo lo spettacolo dello scontro: che sia l’esplosione di insulti nel traffico stradale, la piazzata condominiale con dovizia di ingiurie o la penosa, disgustosa zuffa in TV nel reality o nel talk-show, lo scontro fra gli altri ha una sorta di funzione catartica per la nostra aggressività quotidiana: partecipiamo incolumi da lontano e siamo molto, molto coinvolti sulla nostra comoda poltrona, scaricando adrenalina attraverso le azioni e le parole di terzi.
Lo scontro ormai è una dimostrazione di potenza: la persona in gamba è quella che gioca pesante per affermare la sua volontà sotto i riflettori. Umiltà equivale a debolezza, tranquillità vuol dire opacità, la prudenza viene intesa come vigliaccheria, la pazienza come stupidità: chi persegue con applicazione un risultato modesto ma sicuro è un perdente, chi si accontenta di un dignitoso ruolo di serie B è un fallito. E la potenza significa successo, garantisce il rispetto ed il timore altrui.
Questi dovrebbero essere i lineamenti di una società opulenta ed invulnerabile: invece caratterizzano la maschera sproporzionata di un mondo minato e scricchiolante, dove le certezze più elementari (come l’incolumità delle proprie cose e dei propri cari) vacillano e niente appare più veramente sicuro. E purtroppo va a peggiorare. Una valutazione realistica, basata su uno sguardo retrospettivo obiettivo, super partes, dovrebbe indurre a pensare, a chiedersi se davvero tutta questa ostentazione di zanne scoperte e pugni alzati porti a risultati costruttivi, se non valga la pena di cambiare registro, nelle piccole come nelle grandi cose. Anche perché non manca chi è pronto, oggi più che mai, a manovrare utili strumenti umani, già formattati per reagire nel modo e nel momento opportuno, una volta che sia stato prodotto lo stimolo adeguato. E, paradossalmente, l’uomo in balìa dell’adrenalina perde i suoi parametri razionali in modo totale, perde il più elementare buon senso e l’istinto di autoconservazione, finendo con il diventare meno pensante e più bestiale di qualsiasi altro animale intelligente.