Il Prof. Trimarchi (al Corriere) e il vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura Vietti (al Foglio) nei giorni scorsi hanno sollevato delle perplessità sull’opportunità di includere, nella riforma della Giustizia, la responsabilità del magistrato con la formulazione “per manifesta violazione del diritto” .
In effetti la norma, espressa cosi, si presterebbe a svariate interpretazioni, generando una mole di contenzioso che di fatto bloccherebbe la già aggravata macchina della giustizia, con la non improbabile riduzione dei giudici disposti ad emettere sentenze.
Il problema rimane: già nel 1987 gli italiani, con un referendum promosso dai radicali a seguito dell’ingiusta condanna di Enzo Tortora, introducevano la responsabilità civile per i giudici. Quel risultato però, con una legge d’attuazione, fu adattato all’esigenza della loro categoria scaricando sullo Stato (cioè su di noi cittadini) i costi derivanti da sentenze sbagliate.
E’ indubbio che i magistrati, per svolgere la loro delicata funzione, debbano vincere un concorso pubblico, che però non accerta le loro capacità pisco attitudinali. Oggi ciò è sufficiente?
La nostra cultura, cattolica liberale, se per un verso ci ha educati al perdono in quanto uomini fallibili (tutti), dall’altro non trascura le conseguenze derivanti dall’oggettiva responsabilità che singolarmente possiamo avere.
Perché per altre figure dello Stato esiste, soggettivamente, la “culpa in vigilando” o “la responsabilità riflessa” in base a cui i soggetti preposti sono chiamati a rispondere delle loro azioni?
Riflettiamo su alcuni casi che hanno suscitato non poco clamore: quello del magistrato che chiede l’elemosina davanti al tribunale e viene assolto dal CSM per “aver agito in stato d’incapacità di intendere e di volere” in quel momento, ma è rispedito poco dopo a fare il suo lavoro; oppure pensiamo al magistrato che per dodici volte in un anno ha concesso ad un detenuto il permesso per festeggiare il compleanno del figlio.
La casistica è nutrita, basta leggere il libro di Stefano Zurlo (Ed. Piemme) “La legge siamo noi. La Casta della giustizia italiana”;
l’autonomia può essere autoreferenzialità?
Un discorso è se si deve valutare un comportamento deontologico e, giustamente, coloro che giudicano devono essere appartenenti alla stessa categoria dei giudicati; altra cosa è se vi è da comminare una pena, in tal caso l’indipendenza e la “terzietà” diventano indispensabili
E’ diventata insopportabile la pretesa secondo la quale il magistrato, in nome dell’autonomia, risponde solo ai suoi colleghi i quali, a differenza dei comuni mortali, si sono dotati di una superiorità morale che li innalza dal volgo comune.
Riportiamo alcuni dati relativi al periodo 1999-2006: su 1.010 magistrati oggetto di provvedimenti disciplinari, 812 sono stati assolti, 126 condannati con “ammonimento” (la pena più soft), 38 puniti con una censura, 6 con l’espulsione, 2 tecnicamente rimossi e solo 4 destituiti.
Si dà il caso che la commissione disciplinare che deve prendere provvedimenti sia eletta da coloro che potrebbero essere giudicati, un’anomalia che andrebbe risolta definitivamente.
Ci si chiede infatti: non siamo in presenza, anche in questo caso, del tanto deprecato voto di scambio?