Forse non solo in Europa, ma tra tutte le democrazie dell’Occidente, l’Italia ha un sistema parlamentare tricamerale.
Ci sembra opportuno, ora che pare si vogliono affrontare nelle sedi proprie i nodi delle necessarie riforme costituzionali e istituzionali, mettere anche in agenda e affrontare, per un suo superamento, l’anomalia tutta italiana della: tricameralità incostituzionale.
Noi formalmente siamo un tradizionale sistema parlamentare bicamerale, anzi troppo tradizionale vista la duplicazione dei compiti e dei costi, tant’è che si dibatte sulla diversificazione dei ruoli tra le due Camere, sulla modifica e i pesi tra Esecutivo e Parlamento, sui compiti del Presidente della Repubblica e su quelli del Presidente del Consiglio.
In realtà sono tutte cose a cui andrebbe fatto il “tagliando” anche se l’anomalia è altrove:
-è nel rapporto fiduciario che in democrazia si costituisce e si rinnova con il rito elettorale;
-è nel mancato riconoscimento del patto fiscale tra lo Stato e i cittadini, che prevede oltre all’imposizione, anche il conseguente indirizzo della spesa sulla base delle risorse acquisite;
-è nel meccanismo, gravemente inceppato, del passaggio dalla statuizione normativa (anche quando è chiara) e l’attuazione sul campo degli imperativi di legge, definiti dai rappresentanti liberamente eletti.
Grazie all’anomalia della terza Camera, siamo riusciti a realizzare lo: “Stato di Paralisi”, pur invocando riforme burocratiche, iniziative economiche, nuove forme di assistenza sociale e servizi alla collettività.
Siamo una Repubblica giovane, post-bellica con una democrazia occidentale che ha il più grande partito orientale (PCI) che all’epoca in cui il mondo era diviso in blocchi, ha trovato strategico elevare a III Camera: la piazza.
Il morbo dopo quaranta anni è ancora tra noi e produce: NO TAV , NO NUCLEAR ENERGY, NIMBY, NO ACQUA AI PRIVATI, NO GASSIFICATORI, i no se volessimo contarli tutti non basterebbe l’intera pagina.
Si potrebbe anche convenire con tutti i “no” del mondo a patto che se ne accettano le conseguenze e se ne sopportano i costi.
Emblematico quello che si sta verificando in questo momento nella Capitale: l’acqua deve restare pubblica anche se la società che la gestisce per conto del comune, ACEA, da tempo immemorabile conosce la codizione delle condotte: un autentico colabrodo,che disperde un bene i cui costi, per renderla potabile, ricadono sui consumatori. Sostengono di non avere risorse economiche sufficienti per interventi risolutivi e come se non bastasse da qualche anno nell'acqua, che arriva nelle case, si trova sabbia oltre ad essere fortemente calcarea. L'insieme di questi disservizi sta provocano una serie di conteziosi tra Acea cittadini ed industrie che lamentano danni alle apparecchiature. Però l'acqua è pubblica!