Certo facevamo gli scongiuri leggendo dieci, venti, trent’anni fa le ipotesi catastrofiche sul futuro del nostro mondo trionfalmente avviato, a passo di carica, verso l’evoluzione industriale e super tecnologica.
Negli anni ’70 solo i più bravi della classe perdevano tempo a studiare i paragrafetti in calce ai capitoli di storia e geografia relativi all’inquinamento, al sottosviluppo, ai pericoli nascosti nel futuro; gli altri sbadigliavano, toccavano ferro e giravano pagina. Poi arrivarono i modelli di laboratorio, i libri degli esperti e gli appelli delle organizzazioni scientifiche internazionali: troppo brutto per crederci, troppi gli scettici e molti quelli che risposero, dalle colonne di giornali e riviste, in tono beffardamente ostile.
Tanto tempo fa qualcuno prediceva che saremmo stati invasi dal mondo dei poveri, affamati e pericolosamente più numerosi di noi. Senza pensare (cosa fin troppo facile e scontata) al flusso di disperati che attraversa ogni giorno i nostri confini, ai barconi gremiti che mandano periodicamente in tilt i centri di accoglienza, valutiamo altri aspetti meno appariscenti ma ben più ponderosi. Interi quartieri delle grandi città europee sono occupati per lo più da altre etnie, le cui attività commerciali regolarmente svolte hanno soppiantato negozi ed uffici funzionanti da generazioni. Ed anche senza la presenza fisica degli extracomunitari, il made in India, China, Taiwan, Corea e Bangladesh ha invaso il mercato, proponendo dalle bancarelle agli scaffali dei supermercati merci variate ed appetibili a prezzi così stracciati da rendere impossibile qualsiasi nostra concorrenza.
Intanto noi abbiamo allevato una generazione di giovani dipendenti dagli strumenti tecnologici fin dall’infanzia, di ragazzi quasi sempre pigri e privi di originalità, di intraprendenza e di capacità di sacrificio: traducono la versione con lo smart phone, ristagnano per anni all’università fuori corso e non riescono a trovare impiego (e quindi a sganciarsi dalla famiglia di origine per formarsene una propria) anche perché scartano a priori tutto ciò che non corrisponda su misura alle loro esigenze. Paradossalmente in Italia un Senegalese ha più possibilità di trovare lavoro, sia pure in modo precario, irregolare e disagiato, di un Italiano.
Ma non è finita… Ormai tutti i libri di testo parlano dei buchi nell’ozono, dell’effetto serra, del riscaldamento globale, ma ovviamente, vedendo il video drammatico presentato all’ONU qualche anno fa sulle conseguenze dei cambiamenti climatici, tutti abbiamo pensato “Sai chi se ne frega se al Polinesiano gli si allaga la casa? Tanto lui è là e noi qua!” Beh, se pensiamo che ogni estate è “la più calda in assoluto”, che ormai ogni anno nelle grandi città da Nord a Sud è emergenza afa dalla fine di Giugno alla fine di Agosto quasi senza interruzioni, che l’inverno sempre più breve è caratterizzato da manifestazioni sempre più estreme e rovinose… forse dedurremo che i problemi sono arrivati pure qua, e che stanno incombendo sempre più minacciosi anche sulle nostre preziose e stimatissime teste.
E’ chiaro che nessuno di noi può ostacolare le gigantesche nubi di gas tossici immesse senza freno in atmosfera dalle ciminiere delle potenze industriali emergenti, o la distruzione della giungla tropicale; ma potremmo almeno rispettare e tutelare quello che abbiamo, quel po’ di natura ristoratrice in grado di mitigare la vampa del solleone o di impedire le frane. La devastazione degli incendi (quasi sempre dolosi) di quest’estate dimostra esattamente il contrario: è la prova dell’incapacità colpevole di guardare al futuro, annientando il bene comune per un meschino guadagno particolare. Qual’ è lo sviluppo prevedibile per il domani? Che vantaggio si può trarre da aree di terreno arido e desolato anche una volta che vi si costruiscano caseggiati destinati a rimanere per tre quarti inabitati, vista la crisi del mercato immobiliare? Se la risposta individuale a tali quesiti è un buon impianto di aria condizionata siamo davvero lontani dall’intelligenza e dal buon senso.