Se è vero che vi è un nesso ineludibile tra politica ed economia, questo assioma è ancora più vero in una fase di crisi economica planetaria; in essa e per superarla ogni Nazione cerca la sua strada. Spesso, però, le strade sono simili ed obbligate.
Diventa quindi importante l’habitat culturale e politico che il Paese offre agli operatori economici per affrontare e superare la crisi.
Leggere i giornali, qualche volta, è utile per capire i giudizi dati all’estero e l’opinione che hanno gli altri di noi, cosa caratterizza ed influenza il comune sentire.
Il giudizio che viene da più parti, è che nel nostro Paese circola una visione visceralmente negativa del capitalismo di mercato con le sue regole e le sue implicazioni. Altro elemento, non meno importante, è l’incertezza del diritto supportato da una normativa spesso lacunosa, dalle leggi e contemporaneamente dalla interpretazione giurisprudenziale, da una Costituzione scritta ed una applicata; elementi tutti che con la lentezza del sistema giudiziario costituiscono l’indeterminatezza delle regole.
Questo può aiutare a spiegare perché gli investitori non prediligono, per i loro investimenti, l’Italia.
Ma quello che è vero per il resto del mondo, non è vero per i detrattori italiani guidati dal preconcetto che “l’IO” sia migliore del “NOI”.
Se i PM di Palermo possono depositare una memoria alla Corte Costituzionale in cui si legge che : “il Presidente Napolitano non è un re”, quindi niente immunità, scontro ad altissimo livello in cui, anche chi rappresenta il Paese, può essere messo in discussione dal PM neo assunto, contribuendo così all’indeterminatezza delle regole, la politica poi fa la sua parte per supportare la visione negativa del capitalismo.
Come si può leggere la sottoscrizione della Carta d’intenti che il Pd, attualmente in testa nei sondaggi per guidare il prossimo governo, ha fatto con i socialisti di Nencini e Vendola, se non a un ritorno ad una politica assistenziale che metta fine al risanamento per puntare sulla crescita.
Si continua nel percorso di sempre mentre ciò che occorre continua a restare nei cassetti come le riforme strutturali per diventare una moderna economia di mercato, competitiva ed in crescita. Se non cresce la produttività non si abbassano i costi fissi e di tasse ne abbiamo già abbastanza.
Ciò non vuol dire necessariamente affamare gli operai, che anzi in quanto tali vanno salvaguardati, o creare disoccupazione ma, alcune imprese non possono restare sul mercato perché ormai antieconomiche.
Salvare, come si è fatto per anni, aziende entrate in declino irreversibile, piuttosto che puntare sulla mobilità settoriale e geografica o alla riqualificazione verso aziende e settori a maggiore produttività è stata la vera causa, ante-crisi, dello stop per la crescita dell’Italia.